I tumori del fegato. L'epatocarcinoma

Introduzione

   I tumori maligni del fegato, primitivi e secondari, rappresentano un tema di notevole rilevanza clinica ed epidemiologica. A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, le conoscenze sulla storia naturale e sulla stadiazione di queste neoplasie sono notevolmente progredite e sono state proposte numerose opzioni terapeutiche in alternativa alla terapia chirurgica, nei casi in cui questa sia controindicata o presenti un rischio elevato. Fra queste, hanno suscitato recentemente un notevole interesse le tecniche di termoablazione percutanea, che soprattutto con l'impiego delle radiofrequenze costituiscono un'alternativa all'alcolizzazione percutanea. 
L'epatocarcinoma (HCC) è al quinto posto fra le principali neoplasie nel mondo e ha registrato un sensibile aumento negli ultimi anni, in relazione in particolare alla diffusione dell'infezione da virus dell'epatite C.
        Nel 1990 sono stati stimati 437.000 nuovi casi nel mondo, mentre in Italia l'incidenza è stimata in circa 12.000 nuovi casi all'anno. L'epatite cronica e la cirrosi sono considerate condizioni predisponenti. Dal punto di vista evolutivo, l'HCC presenta un ritmo di crescita estremamente variabile e la prognosi risulta influenzata in maniera significativa dalla malattia epatica sottostante.  
Riguardo la terapia, la resezione chirurgica è considerata di prima scelta in caso di tumore singolo di piccole e medie dimensioni in pazienti con buona funzionalità epatica e senza ipertensione portale, pur essendo associata a una elevata incidenza di recidive, pari all'83-100% a 5 anni
Il trapianto di fegato fornisce eccellenti risultati in termini di sopravvivenza e di assenza di recidive in pazienti selezionati. Tuttavia, la limitata disponibilità di donatori e la progressione della malattia in molti pazienti con HCC mentre sono in lista d'attesa, riducono l'efficacia di questa scelta terapeutica. Nella pratica clinica, soltanto il 10-25% dei pazienti con HCC possono giovarsi di una terapia radicale.

       


Patogenesi



         Lesioni preneoplastiche vengono considerate nell’ambito della cirrosi i noduli iperplastici, come i macronoduli di rigenerazione ed i noduli di iperplasia adenomatosa, a basso ed alto grado di displasia.     
       La rigenerazione cellulare epatica in fegati cirrotici potrebbe rappresentare l’evento oncogenico cruciale. La displasia a piccole cellule è il fattore di rischio più importante correlato con lo sviluppo del tumore. L’HCC inizialmente appare come tumore ben differenziato e prolifera andando incontro a graduale processo di anaplasia.
      Dal punto di vista anatomo-patologico l’epatocarcinoma viene classicamente distinto secondo la classificazione di Eggel in : nodulare, massivo e diffuso. Il tipo nodulare è caratterizzato dalla presenza di uno o più noduli di dimensioni variabili. Il tipo massivo è caratterizzato da tumori infiltranti di grandi dimensioni che occupano più di un segmento del fegato. Il tipo diffuso è caratterizzato da una distribuzione diffusa a tutto il fegato di numerosi piccoli noduli tumorali.
     L’invasione dei vasi epatici da parte delle cellule tumorali, così come l’invasione microscopica extracapsulare del tessuto epatico circostante, è correlata alle dimensioni del tumore: HCC di più grandi dimensioni generalmente mostrano un certo grado di invasione per cui è frequente il riscontro di lesioni multiple. Noduli multipli possono comunque essere correlati sia alla diffusione intraepatica di un singolo nodulo di HCC, sia ad una origine multifocale del tumore.


Quanto tempo impiega a svilupparsi?

 

     Grazie alle moderne tecniche di imaging ed ai riscontri chirurgici, è stato possibile negli ultimi anni approfondire la storia naturale dell’epatocarcinoma. Si è fra l’altro appreso che il tempo di raddoppiamento del tumore varia da 1 mese a 9 mesi, con una media di 6 mesi. Tale variabilità dipende dal fatto che alcuni HCC  mostrano una scarsa tendenza alla crescita in fase iniziale, altri dopo un periodo  di crescita entrano in una fase stazionaria, altri ancora presentano una fase di crescita costante.
Il tempo necessario perché una lesione carcinomatosa passi da una condizione di non rilevabilità a quella di un nodulo di circa 2 cm è 4-12 mesi.

Come si esegue la diagnosi

 

            I pazienti con cirrosi sono dunque a rischio di sviluppare una neoplasia epatica e devono perciò essere inclusi in un programma di sorveglianza per poter permettere una diagnosi precoce dell’HCC ed un successivo potenziale trattamento efficace. 
La sorveglianza  prevede l’esecuzione di un’ecografia ogni 6 mesi. In tal modo è possibile la diagnosi di HCC ancora in fase iniziale (early HCC) nel 30-60% dei casi, il che consente il ricorso a trattamenti curativi.
Per la diagnosi di HCC nell’ambito di un fegato cirrotico si fa riferimento alle linee guida della  EASL ( European Association for the Study of the Liver) e dell’AASLD (American Association for the Study of  Liver Disease). Per i noduli di diametro inferiore ad 1 cm, che sono maligni in meno del 50%, viene raccomandato uno stretto follow-up con ecografia almeno ogni 3-4 mesi; in caso di crescita assente nei successivi 2 anni si ritorna al normale follow-up.  I noduli compresi tra 1 e 2 cm devono essere indagati con almeno 2 tecniche dinamiche di imaging (TC, RMN, CEUS). Se esiste riscontro di comportamento tipico per HCC ( contrast-enhancement in fase arteriosa e wasch-out in fase porto-tardiva) e esiste concordanza tra le tecniche selezionate le lesioni possono essere trattate per HCC senza ricorrere alla biopsia.  Per i noduli maggiori di 2 cm di diametro è sufficiente il comportamento contrasto grafico tipico per HCC ad una sola  tecnica di imaging  oppure il rilievo di valori di 1-fetoproteina > 200 ng/ml.
D’altra parte solo un 30% dei casi di HCC possono essere confermati da criteri non invasivi. Gli altri necessitano della biopsia epatica.



Che ruolo ha l’ecografia nella diagnosi?

 

L’ecografia  può contribuire alla identificazione, alla caratterizzazione ed alla stadiazione dell’epatocarcinoma.

 

1)Identificazione

 

L’ecografia convenzionale, o B-Mode, è in grado di rilevare le lesioni in percentuale variabile a seconda delle dimensioni, dell’ecostruttura, della sede, dell’esperienza e della motivazione dell’operatore, ed anche della qualità dell’ecografo utilizzato. Per cui la sensibilità dell’ecografia nell’identificazione di un HCC è compresa fra il 43 ed 95%.
L’HCC nodulare corrisponde ad una lesione focale del fegato.  La sua ecostruttura è correlata alle dimensioni: quando la lesione è inferiore ai 2 cm essa si presenta solitamente ipoecogena, ma non di rado appare iperecogena, indistinguibile dall’aspetto di un angioma. Quando la lesione supera i 2 cm appare sia ipoecogena che ecogena (iso-iperecogena) con alone o disomogenea. Si ritiene che l’alone corrisponda alla capsula fibrosa o ad una zona di tessuto non neoplastico compresso  (pseudocapsula). Comunque sia esprime un accrescimento di tipo espansivo.   Considerando la storia naturale dell’HCC, di solito i piccoli tumori  ipoecogeni, crescendo, divengono isoecogeni con alone ipoecogeno, quindi iperecogeni con alone ed infine ad ecostruttura mista. 

La fase terminale è rappresentata dal cosiddetto tumore massivo, solitamente disomogeneo e di grandi dimensioni. Il tipo diffuso dell’HCC è caratterizzato da una marcata e diffusa disomogeneità ecostrutturale del fegato e dalla presenza di multiple, piccole formazioni nodulari sia ipo che iso che iperecogene, eventualmente con alone, che possono anche combinarsi variamente fra loro nello stesso paziente.


Ecografia intraoperatoria (IOUS)

       Lo studio ultrasonografico intraoperatorio del fegato nasce, oltre che come metodica alternativa alla colangiografìa intraoperatorìa per lo studio delle vie biliari durante gli interventi di colecistectomia per calcoli, con lo scopo di guida per il chirurgo durante le resezioni epatiche per tutte le lesioni focali epatiche, sia di tipo solido che liquido (). 

         Durante una resezione epatica per carcinoma epatocellulare (HCC), non è infrequente che l'ecografia intraoperatoria individui "nuovi noduli" non evidenziati con gli esami preoperatori. Dato che la strategia operatoria può essere cambiata se il nodulo identificato risulta essere un'altro HCC, la diagnosi differenziale di tale nodulo è critica. Le piccole lesioni tumorali che nascono nel parenchima epatico o dai suoi vasi sono generalmente non visibili e non palpabili alla superficie, soprattutto in caso di cirrosi. Grazie alla chiara visione dei vasi agli ultrasuoni, la resezione di una piccola area del fegato può essere facilmente guidata. 
L'ecografia intraoperatoria con­sente di stabilire la precisa topografia dei tumori epatici e guida il chirurgo per una corretta resezione epatica. Questa metodica decisiva per orientare il chirurgo verso una subsegmentectomia sistematica. 

L'ecografia intraoperatoria ha reso possibile una valutazione più approfondita del rapporto tra il tumore ed i vasi nel fegato consentendo una più facile resezione (anatomica). Le caratteristiche funzionali vascolari anatomiche del fegato, come descritte da Couinaud hanno consentito ai chirurghi di eseguire resezioni epatiche controllate come epatectomie destre o sinistre o come segmentectomie epatiche. Tuttavia c'è un contrasto tra la necessità di un'approfondita conoscenza nell'identificazione vascolare (diramazioni portali o vene epatiche) e l'as­senza di marcatori fisiologici sulla superfice epatica. L'ecografia consente una buona visualizzazione delle strutture vascolari intraepatiche (). Sebbene preoperativamente essa offra informazioni per una valutazione topografica, non aiuta il chirurgo a loca­lizzare o identificare queste strutture intraoperatoriamente. 
        D'altro canto uno studio intraoperatorio può consentire la localizzazione delle strutture vascolari attraverso la superficie epatica, rappresentando in questo modo una valida guida per la mano del chirurgo operatore. 
La peculiarità dell'ecografìa intraoperatoria è quella di produrre immagini ad alta risoluzione grazie all'uso di sonde ad alta frequenza, evidenziando spesso noduli che preoperatoriamente non erano stati individuati. La diagnosi differenziale di questi noduli è fondamentale perché la tattica operatoria può cambiare in relazione alla malignità o meno della lesione appena individuata. Questa differenziazione è particolarmente difficile nel fegato cirrotico dove i noduli di rigenerazione possono avere la stessa dimensione di un HCC. 

L'area da esaminare deve essere esposta in modo ottimale: è pertanto necessario che divaricatori e valve rimangano disposti nell'assetto voluto dal chirurgo. Dopo la mobilizzazione del fegato, previa resezione dei legamenti epatici, il fegato viene studiato con scansioni multiple, nel seguente ordine:



1) si rintracciano le vene sovraepatiche e i loro rami tributari, facendo attenzione a non lasciarsi sfug­gire le brevi vene epatiche;


2) si evidenziano le branche della vena porta;

3) si esamina il parenchima del fegato per la ricerca della lesione primitiva (e/o delle altre lesioni già diagnosticate) e per la ricerca dei noduli di nuova identificazione, attraverso uno studio sistematico e ripetuto di scansioni trasversali e longitudinali.

Questa sequenza di scansioni, previa introduzione di una garza sterile nella regione di sezione ed interposizione del pezzo operatorio, deve essere nuovamente ripetuta. Se viene evidenzialo un nuovo nodulo, viene asportato insieme alla lesione considerata fino a quel momento primaria ed inviato in estemporanea all'anatomo-patologo per l'esame istologico. In un recente lavoro, Kokudo e Makuuchi hanno identificato in corso di ecografia intraoperatoria nuovi noduli nel 29.3% dei casi. L'ecografia intraoperatoria ha mostrato molti noduli satelliti e trombi tumorali non evidenziati preoperatoriamente. In tal modo si possono evitare di eseguire resezioni epatiche non curative. Nel 60% dei casi le nuove formazioni individuate non erano visibili preoperatoriamente. Questi pazienti, in caso di lobectomia, avrebbero sviluppato una disfunzione epatica postoperatoria. Pertanto in questi casi si è proceduto ad una piccola resezione del tumore. Con l'ecografia intraoperatoria tutte le lesioni invisibili e non palpabili del fegato vengono evidenziate.

       Tra tutte le metodiche di imaging. includendo l'ecografia preoperatoria, l'angiografìa, la TC e la Lipiodol TC, il tasso di identificazione dell'ecografia intraoperatoria per lo small HCC (lesioni che non superano i 3 cm di diametro) è in letteratura la più alta (96%). 



      La maggior parte dei noduli di nuova identificazione ha dimensioni molto piccole (non più grandi di 1 cm) e mancano di una caratteristica ultrasonografica tipica per l'HCC, pertanto possono essere associati ad un pattern ecografico così detto "a mosaico" (tipo III), o contorno ipoecogeno e linea di confine chiara. La diagnosi differenziale dei noduli di nuova identificazione ipoecogeni (tipo I) o iperecogeni (tipo II) è molto difficile in sala operatoria. 
Tuttavia è da annotare che il 24% dei noduli ipoecogeni risulta essere HCC. mentre nessuno dei piccoli nuovi noduletti iperecogeni è risultato essere maligno. Questi dati sono in accordo con i risultati degli studi di ultrasonologia delle piccole lesioni epatiche (di diametro inferiore ai 3 cm) condotti da Otomo e da Itai, in cui la possibilità di malignità era alta (80.6%) nei noduli ipoecogeni ed era relativamente bassa (18,2%) nei noduli iperecogeni. Inoltre il pattern ecografico dello small HCC (1-2 cm) è stato riportato essere ipoecogeno nell'83.3% dei casi ed iperecogeno nell' 1,1% ().

        Generalmente le lesioni iperecogene sono più facilmente individuate in corso di un'ecografia preoperatoria, rispetto alle lesioni ipoecogene. Questo può spiegare la differenza nel fare una media equivalente tra noduli di nuova identificazione ipo o iperecogeni. Le lesioni iperecogene di minor grandezza hanno una una maggiore possibilità di essere benigne. La possibilità di incontrare un HCC iper-ecogeno implica il riscontro di lesioni grandi almeno 1 cm.

       L'analisi delle caratteristiche cliniche dei noduli maligni di nuova identificazione indica che essi hanno bisogno di una conferma istologica per HCC, specialmente quando sono accompagnati da lesioni nodulari multiple diagnosticate preoperatoriamente, o quando l'intervallo tra la Lipiodol TC e l'intervento è da considerarsi lungo. La stessa Lipiodol TC non è perfetta nella diagnosi dello small HCC. Dopo l'eco­grafia intraoperatoria, la Lipiodol TC ha il secondo miglior tasso di identificazione. Tuttavia, lo small HCC (diametro inferiore a 1 cm), che frequentemente presenta un aspetto istologico altamente differenziato, non sempre è ipervascolare e pertanto può non accumulare il Lipiodol iniettato. 

      Nel fegato cirrotico possono essere evidenziate vari tipi di lesioni nodulari, i noduli rigenerativi, l'iperplasia adenomatosa (sinonimo di iperplasia nodulare adenomatosa, noduli macrorigenerativi, o pseudotumore epatocellulare), e iperplasia adenomatosa atipica.






2)Caratterizzazione

 

L’ecografia convenzionale comunque, se è in grado di rilevare le alterazioni ecostrutturali del fegato compatibili con HCC, non consente di precisarne la natura.
L’ecocolor e power-Doppler e l’ecografia con contrasto (CEUS) contribuiscono invece a caratterizzare meglio le lesioni focali del fegato rilevate mediante B-Mode.
La base fisiopatologica per l’impiego di queste metodiche sta nel fatto che l’HCC presenta solitamente una ipervascolarizzazione di tipo arterioso con un drenaggio venoso misto. Il sangue entra nel nodulo da una o più arteriole afferenti, perfonde la rete sinusoidale del tessuto neoplastico e viene drenato da vene prevalentemente nel sistema portale ed in minor parte nel sistema delle vene sovraepatiche
L’ecografia con contrasto (CEUS) consente di rilevare nei casi tipici ( 50-60%) un rapido ed omogeneo enhancement in fase arteriosa, seguito da aspetto ipoecogeno in fase portale e tardiva per wasch-out.
Il color-Doppler è una tecnica che rimane utile in determinati casi quando identifica il pattern a canestro, che consiste in una ricca rete di vasi che circondano il nodulo , o il pattern di vascolarizzazione intranodulare, che consiste nella presenza di vasi arteriosi che penetrano all’interno del nodulo. 


3)Stadiazione

 

I parametri utili per la stadiazione di un HCC sono essenzialmente: dimensioni, numero, coinvolgimento vascolare, metastasi linfonodali e di organo.
Il coinvolgimento vascolare più frequente e precoce è quello che riguarda il sistema venoso portale. La piletrombosi  si ritrova nel 62,2% dei pazienti morti per HCC e sottoposti ad autopsia. E’ tanto più frequente quanto più avanzata è la malattia. I vasi portali possono contenere trombi neoplastici al loro interno. Per stabilire la natura neoplastica di un trombo portale e discriminarla da quella coagulativa, ci si può avvalere dell’ ecografia con contrasto: il rilievo di una vascolarizzazione arteriosa intrinseca al trombo depone per la natura neoplastica. La trombosi neoplastica può determinare un’ostruzione parziale o completa del vaso.
Il coinvolgimento del sistema delle vene sovraepatiche è meno frequente. E’ stato infatti rilevato nel 26,2% dei pazienti morti per HCC e sottoposti ad autopsia.
Il coinvolgimento della colecisti e delle vie biliari è ancora più raro riguardando solo il 9% dei pazienti morti per HC e sottoposti a biopsia.
Metastasi linfonodali possono essere rilevate a livello delle varie stazioni dell’addome superiore, ed in particolare a livello ilare.
Metastasi addominali  a distanza si possono riscontrare in sede peritoneale, surrenale, splenica o di visceri cavi.



Come si cura? 

 

A) Resezione chirurgica

 

            La resezione epatica è il trattamento di scelta sia per i pazienti con HCC su fegato sano, che rappresentano il 5% dei casi nei paesi occidentali  ed il 40% in quelli asiatici, sia per i pazienti con cirrosi epatica, purché asintomatici, con unico nodulo e funzione epatica conservata. 
Prognosi: Una attenta selezione dei candidati permette una sopravvivenza a 5 anni di circa il 50-70%. Le variabili utilizzate in Europa, al fine di prevenire l’insufficienza epatica post-operatoria, sono valori normali di bilirubina e l’assenza di ipertensione portale clinicamente rilevante, ovvero pressione portale inferiore a 10 mmHg, assenza di varici o splenomegalia e conta piastrinica superiore a 100.000 mm3. Seguendo questi criteri solamente il 5-10% dei pazienti può essere sottoposto a resezione. 
L’outcome è meno favorevole nei pazienti con ipertensione portale clinicamente rilevante (sopravvivenza a 5 anni: 50%) o con entrambi i fattori prognostici avversi (sopravivenza a 5 anni: 25%). Purtroppo anche nei pazienti ben selezionati il tasso di ricorrenza è alto (70% dei casi a 5 anni tra recidive e tumori de-novo). Terapie adiuvanti o neo-adiuvanti non sono indicate. 




B)Trapianto di fegato

 

Il trapianto di fegato ha l’ovvio vantaggio rispetto alle altre tecniche di rimuovere oltre al tumore il fegato danneggiato sottostante e quindi è l’unico trattamento che cura contemporaneamente il tumore e la cirrosi epatica. I candidati ottimali sono i pazienti con early HCC (nodulo singolo ≤ 5cm o fino a 3 noduli ≤ 3cm) i quali ottengono una sopravvivenza a 5 anni del 70% con un tasso di ricorrenza inferiore al 15% e quelli con insufficienza epatica avanzata. Tali benefici però si ottengono solo se il tempo di attesa è inferiore ai 6 mesi e la scarsità dei donatori spesso non permette di intervenire in tempi stretti con un tasso di drop out del 20-50%. Un’alternativa può essere rappresentata dal trapianto da donatore vivente (tasso di morbidità/mortalità del donatore: 0,5-1%) che  permetterebbe una maggiore disponibilità di organi e quindi di allargare i criteri convenzionalmente applicati. Questi nuovi criteri includerebbero: singolo HCC <7 cm, 3 noduli inferiori ai 5 cm, 5 noduli inferiori ai 3 cm oppure un rientro ai criteri convenzionali dopo un trattamento locoregionale durato più di 6 mesi. Lo scopo è ottenere una sopravvivenza di 5 anni del 50%.
Trattamenti pre-trapianto possono essere presi in considerazione se le liste di attesa eccedono i 6 mesi.




D) Trattamenti percutanei

 

Dalla Consensus Conference di Barcellona del 2000 i trattamenti percutanei come l’alcolizzazione (PEI) e la radiofrequenza (RF), a cui vanno  aggiunte la termoablazione laser (LA) e quella con microonde, sono considerati curativi dell’epatocarcinoma, rappresentando l’opzione terapeutica di scelta per i pazienti  non candidabili a trapianto di fegato e resezione chirurgica  con funzionalità epatica conservata. Si ritiene che l’ablazione percutanea possa ottenere risposte complete in circa l’80% dei tumori più piccoli di 3 cm di diametro ed in circa il 50% dei tumori di 3-5 cm. In alcuni Centri la RF viene considerata il trattamento di scelta per HCC singoli, di diametro inferiore a 2 cm , in quanto capace di ottenere percentuali di necrosi completa e curve di sopravvivenza equiparabili alla chirurgia resettiva, pagando un minor prezzo in termini di mortalità e di complicanze maggiori. 
Fra le tecniche di terapia interstiziale, quella più diffusa e validata è senza dubbio l’alcolizzazione (PEI). Il razionale di tale tecnica di trattamento dell’epatocarcinoma si basa innanzitutto sul meccanismo di azione dell’alcol. Esso agisce sia diffondendo all’interno delle cellule e provocando disidratazione proteica e necrosi coagulativa, sia entrando nei piccoli vasi neoformati, dove danneggia le cellule endoteliali, determinando trombosi vascolare e conseguente ischemia. Per tale motivo funziona soprattutto in tumori riccamente vascolarizzati quali l’epatocarcinoma. Inoltre l’HCC ha solitamente una minore consistenza rispetto al tessuto cirrotico circostante ed è dotato di una capsula fibrotica per cui l’alcol introdotto tende a permanere a lungo a contatto del tessuto neoplastico avendo il tempo necessario per esplicare la sua attività citotossica e trombotica. Si comprende pertanto come l’alcol sia meno efficace nelle forme infiltranti, sprovviste di capsula, e nelle rare varianti sclerosanti, caratterizzate da una cospicua componente fibrotica. Infine l’alcol, rimanendo nelle forme espansive confinato all’interno dell’epatocarcinoma, risparmia il tessuto cirrotico circostante e non provoca scompensi funzionali dell’organo.
Il materiale necessario per l’alcolizzazione è scarso e di basso costo. In pratica serve solo un ago non tranciante, una siringa e dell’alcol  etilico sterile a  95°.  Si possono utilizzare aghi mandrinati di 21-22 G con punta tipo Chiba o spinale, oppure aghi speciali  di 21 G con più fori in prossimità dell’estremità, sia a punta aperta e provvisti di mandrino, sia a punta chiusa senza mandrino. Quest’ultimo tipo di ago riduce i tempi di esecuzione della manovra, oltre a garantire una migliore diffusibilità dell’alcol.
Il trattamento viene classicamente eseguito mediante multiple sessioni, sotto guida ecografica, perché questa consente di indirizzare agevolmente l’ago nella porzione prescelta della lesione, di monitorizzare in tempo reale la distribuzione dell’alcol all’interno della stessa, di evidenziare eventuali vie di fuga dell’alcol  e di controllare la retrodiffusione dell’alcol durante l’estrazione dell’ago.
Nel nostro Centro non effettuiamo alcuna preparazione del paziente; in particolare non somministriamo terapia analgesica o sedativa o anticolinergica preventiva. Né pratichiamo anestesia locale nei punti di inserzione degli aghi. Ci limitiamo a garantirci una linea venosa posizionando un  agocannula in una vena periferica;  attraverso un rubinetto a 3 vie teniamo a disposizione una fiala di meperidina, nel caso il dolore  richiedesse un intervento analgesico rapido durante o subito dopo la manovra.
La tecnica consiste essenzialmente nell’indirizzare un ago sotto guida ecografica all’interno dell’HCC per poi iniettare dell’alcol. Se il nodulo è piccolo, risulta sufficiente posizionare la punta dell’ago nel centro per ottenere una soddisfacente alcolizzazione dell’intera lesione. Per lesioni più grandi  è necessario scomporre  il nodulo in porzioni ( ad esempio laterale e mediale, oppure craniale e caudale) ed effettuare di volta in volta inserzioni mirate nelle varie porzioni, posizionando  inizialmente l’estremità della punta nella parte più distale.
L’arrivo dell’alcol all’interno della lesione è segnalato dalla comparsa di una caratteristica nubecola ipercogena che genera degli artefatti, fra cui, solitamente, un’ombra acustica posteriore.
Dopo avere iniettato una certa quantità di alcol (2-4 cc), l’ago viene ritratto e si procede all’alcolizzazione anche della parte più prossimale. Se si osserva una fuga eccessiva di alcol attraverso i vasi portali o le vie biliari, la manovra va interrotta onde evitare danni a queste strutture. Una volta completata l’iniezione, è meglio attendere almeno un minuto prima di rimuovere l’ago. Questo va poi ritratto gradualmente osservando sul monitor dell’ecografo se si visualizza una linea iperecogena  lungo il tragitto dell’ago, espressione della retrodiffusione dell’alcol . In questi casi è opportuno fermarsi ed attendere ancora prima di estrarre definitivamente l’ago. In tal modo si evita la diffusione dell’alcol nella cavità peritoneale e l’intenso dolore che ne consegue. Tale procedura può essere ripetuta nella stessa seduta, posizionando di volta in volta lo sesso ago in parti diverse del nodulo, oppure in sedute diverse.
In maniera empirica il numero delle sedute è circa il doppio dei centimetri di diametro. Ad esempio per un nodulo di 2 cm programmeremo almeno 4 sedute prima di valutare l’efficacia della terapia. La formula di Shiina ci può pure aiutare per stabilire la quantità di alcol necessaria per un trattamento completo di un tumore: V= 4/3  (r+0.5)3, dove V è il volume totale di alcol in millilitri ed r è il raggio del tumore in centimetri. Ad esempio, all’interno di una lesione di 2 cm di diametro, dovrebbe essere introdotto non meno di 14 ml di alcol ed in una di 3 cm la dose complessiva necessaria dovrebbe essere almeno di 32  ml. Mediamente una seduta di alcolizzazione  convenzionale, che viene ripetuta 1-2 volte la settimana, dura circa 10-20 minuti. Al paziente viene chiesto di rimanere sdraiato per circa 3 ore, dopodiché di solito viene controllato ecograficamente prima di essere rinviato al proprio domicilio, al fine di cogliere eventuali complicanze, quali versamenti nella cavità peritoneale. Al momento di tale controllo di solito è ancora possibile documentare la persistenza dell’alcol all’interno della lesione sotto forma di spot iperecogeni,  il che conferma all’operatore la correttezza della manovra eseguita.
D’altra parte neanche la PEI garantisce costantemente risultati ottimali e non è scevra da rischi. I maggiori problemi derivanti dall’iniezione di alcol sono:
  • imprevedibilità della sua azione in rapporto alla variabile distribuzione ed al differente tempo di ritenzione all’interno della lesione a seconda della presenza o meno di capsula e di setti intralesionali ed in rapporto al sottotipo istologico (essendo meno efficace negli HCC compatti ad elevata componente stromale)
  • difficoltà di prevedere la quantità complessiva di alcol necessaria
  • necessità di ricorrere a sedute multiple per completare il trattamento secondo la tecnica multisessione convenzionale
  • notevole frequenza di recidive locali
  • il considerevole dolore spesso provocato
  • rischio di insemensamento o di altre complicanze.

           Nell’ambito delle terapie interstiziali si sono quindi ricercate soluzioni diverse per il trattamento delle neoplasie epatiche fra cui principalmente l’ipertermia. Negli ultimi anni si è affermata soprattutto l’ipertermia mediante radiofrequenza e, in misura  minore, quella mediante laser. Invece l’ipertermia mediante microonde è ancora limitata a pochi Centri, mentre il ricorso agli ultrasuoni focalizzati (HIFU) è  entrato nell’uso clinico solo da poco tempo e non è ancora possibile giudicarne l’impatto clinico.
La radiofrequenza (RF) viene oggigiorno preferita alla PEI come tecnica ablativa percutanea di prima istanza nei confronti dell’HCC in stadio early non suscettibile di intervento chirurgico, in quanto consente più frequentemente la necrosi completa degli small HCC in un minor numero di sedute, con una minore frequenza di recidive locali. D’altra parte presenta un maggior numero di complicanze e non può essere usata in tutte le sedi per il rischio di danneggiare strutture contigue (dotti biliari, colecisti, parete intestinale). Inoltre gli aghielettrodo presentano un calibro elevato (17-18G quelli a punta raffreddata e 14-15 G quelli espandibili), per cui risultano indubbiamente meno maneggevoli rispetto agli aghi utilizzati per la PEI.
D’altra parte vari trial randomizzati controllati (RCTs) hanno dimostrato un vantaggio della RF nei confronti della PEI sia per quanto riguarda la sopravvivenza globale sia per quanto riguarda il rischio di recidive locali.
La terapia laser (LA) ha il vantaggio, rispetto alla RF, di utilizzare aghi sottili da 21G per l’inserimento delle fibre di quarzo da 300 micron e di essere una tecnica flessibile in quanto si può ricorrere ad un numero variabile di fibre in rapporto alle dimensioni ed alla sede della lesione. Inoltre il posizionamento mirato delle fibre ai quattro punti cardinali della lesione e la multipla sorgente di energia indipendente garantiscono la necrosi non solo della lesione ma anche di un anello di tessuto sano periferico (margine di sicurezza) che assicura maggiore radicalità all’intervento e quindi minore possibilità di recidive locali.
La luce prodotta dal laser al  neodimio ittrio alluminio granato (Nd:YAG)  può essere trasportata attraverso fibre ottiche  inserite nel lume di un ago  nel contesto del  tessuto da trattare. Qui essa va incontro a fenomeni di assorbimento, trasmissione e riflessione, per cui l’energia luminosa si trasforma in energia termica, i cui effetti biologici sono la vaporizzazione e la necrosi coagulativa. Infatti il riscaldamento di un tessuto oltre i 60°C ne provoca la necrosi coagulativa nel  tempo di pochi minuti.  L’ampiezza della necrosi dipende dalla potenza utilizzata, dalla durata del trattamento, dal tipo di fibra utilizzata e dalle proprietà ottiche e termiche del tessuto.  Con le basse potenze  normalmente usate  si raggiungono nelle immediate vicinanze della punta della fibra temperature oltre i 200°C che calano a 50 °C alla distanza di 8 mm producendo quindi delle  aree di necrosi di 16 mm di diametro massimo.
Il sistema laser principalmente utilizzato è costituito da un apparecchio Nd:YAG che produce luce con lunghezza d’onda di 1064 nm, ad emissione continua, con potenza regolabile da 1 a 60 W con rilascio tramite un beam-splitter del raggio laser su 1-4 fibre ottiche da 300 micron, a punta piatta.
La tecnica inizia col posizionare sotto guida ecografica  aghi con punta tipo Chiba da 21 G all’interno della lesione, preferibilmente alla periferia ed in profondità. Per lesioni superiori al centimetro è utile ricorrere alla tecnica multifibra, posizionando gli aghi ad una distanza non superiore di 1-1,5 cm l’uno dall’altro, oppure, tenendo conto dello sviluppo tridimensionale della lesione, ai 4 punti cardinali. Si estraggono quindi i mandrini e si inseriscono nelle cannule le fibre di quarzo, che vengono avanzate rispetto alla punta  dell’ago di circa 7-8 mm. Utilizzando una potenza di 2-4 W, si eroga 1000-1800 Joule per fibra.  Retraendo le fibre approssimativamente di 1-1,5 cm una o più volte, è possibile eseguire  trattamenti molteplici lungo lo stesso asse di inserzione nell’ambito della stessa seduta, al fine di realizzare aree di necrosi maggiori.
Durante il trattamento è possibile monitorare ecograficamente gli effetti del riscaldamento e la posizione delle fibre. La vaporizzazione  del tessuto con produzione di microbolle di gas determina il formarsi di una nubecola iperecogena con attenuazione posteriore che progressivamente viene ad occupare l’intera lesione. Tale nubecola scompare di solito entro un’ ora dal termine del trattamento anche se qualche piccola area iperecogena può persistere per 12 ore. Al termine del trattamento si retraggono le fibre mantenendo il laser acceso, così da indurre ipertermia lungo il tragitto dell’ago ed annullare il rischio di disseminazione neoplastica.
Alcuni Autori sono soliti effettuare i trattamenti laser dopo aver sedato il paziente ed avere  effettuato un’anestesia locale nel punto di infissione degli aghi. Noi  non ricorriamo né alla sedazione,  perchè preferiamo che il paziente sia perfettamente collaborante, né all’anestesia locale,  perché disturba in qualche misura la  successiva visualizzazione ecografica della lesione ostacolando  almeno in parte il corretto posizionamento degli aghi.




D) Embolizzazione arteriosa
 
L’epatocarcinoma ha un forte sviluppo neoangiogenetico durante la sua progressione. Il very early HCC  non è riccamente vascolarizzato ed ha un rifornimento prevalentemente di sangue portale, e solo con la crescita del tumore si assiste ad una sua arterializzazione.
Queste caratteristiche sono alla base del comportamento dell’epatocarcinoma alle tecniche di imaging dinamiche e rappresentano il razionale della TACE che si basa sulla ostruzione embolica dell’arteria afferente con o senza introduzione precedente di agenti chemioterapici. 

L’embolizzazione arteriosa è il trattamento maggiormente utilizzato per l’HCC “intermediate” ( HCC multinodulare, asintomatico senza invasione vascolare o coinvolgimento epatico in cirrosi con funzione conservata). Generalmente vengono utilizzati chemioterapici con lipiodol (chemioembolizzazione). Doxorubicina, mitomicina e cisplatino sono i farmaci antitumorali più comunemente utilizzati. 
La chemioembolizzazione ottiene una risposta parziale nel 15-55% dei pazienti e ritarda la progressione del tumore e l’invasione vascolare.    






E) Farmaci: Sorafenib


 
Sorafenib è un inibitore delle protein chinasi (Tyrosine Kinase inhibitor) recentemente approvato per il trattamento dell’epatocarcinoma avanzato in pazienti  Child A. Ha proprietà sia antiproliferative che anti-neoangiogenetiche ed è utilizzato da anni per il trattamento del carcinoma renale a cellule chiare. Lo studio SHARP (Sorafenib HCC Assessment Randomizaed Protocol) ha evidenziato una maggiore sopravvivenza nei pazienti trattati con Sorafenib vs Placebo (10.7 mesi vs 7.9 mesi), a discapito comunque di effetti collaterali che si manifestano in circa il 20% dei casi come astenia, diarrea, sindrome cutanea mani-piedi ed ipertensione arteriosa.




Tecniche di termoablazione

 

L'impiego della termoablazione nel trattamento dei tumori epatici sfrutta l'effetto necrotizzante esercitato dal calore sui tessuti biologici. E' noto, infatti, che temperature di 43-45 °C producono un danno reversibile degli enzimi cellulari che diviene irreversibile per tempi di esposizione superiori ai 25 minuti[10] L'entità della lesione è tanto più evidente nei tessuti ad alto grado di proliferazione come i tumori. Temperature superiori ai 60 °C determinano in pochi minuti una necrosi coagulativa dei tessuti, mentre a temperature superiori a 100 °C si verificano rapidamente fenomeni di evaporazione e successiva carbonizzazione. L'ipertermia della lesione tumorale può essere indotta mediante diverse fonti di energia, quali le onde a radiofrequenza, le microonde e il laser. Queste tecniche prevedono l'introduzione di un ago elettrodo o di una fibra laser all'interno della neoplasia per indurre l'effetto termico. 
Le onde a radiofrequenza (RF) comprendono una banda di radiazioni elettromagnetiche suddivise in onde a bassa frequenza (<300 kHz), a media frequenza (<3 MHz), ad alta frequenza (<300 MHz) e microonde (2.500 MHz). Si utilizzano solitamente generatori con un frequenza di 480-500 kHz. In un circuito elementare monopolare, l'elettrodo attivo è costituito dall'estremità dell'ago posto all'interno della lesione epatica, mentre l'elettrodo dispersivo è costituito da una piastra posta sulla superficie cutanea della coscia. L'elettrodo, cioè la punta esposta dell'ago, determina il passaggio di una corrente alternata al tessuto circostante con agitazione degli ioni e conseguente riscaldamento resistivo del tessuto. Con questa tecnica si utilizzano solitamente aghi di 1,2 millimetri di calibro. Le microonde hanno un meccanismo d'azione analogo a quelle delle onde a RF, determinando un riscaldamento del tessuto attraverso la polarizzazione delle molecole conseguente al passaggio di onde elettromagnetiche ad alta frequenza (2.450 MHz). Esse sono state utilizzate in alcuni studi preliminari con risultati promettenti[11, 12] anche se necessitano dell'impiego di aghi di calibro maggiore (14 G, pari a 1,6 mm).